Amarezza. La bocca è sporca di birra, ma non è per quello che la senti. La serata è passata, ma sembra non sia trascorsa: è ancora sospesa, che attende di essere vissuta, e nell'etereo qualcosa vibra, in sordina. Ecco da dove viene l'amarezza.
La sento, mentre mi sfrego quella barba che irriverente cresce a mia insaputa, e che mi stanca. I fili del mondo mi prosciugano, prima fuori, poi dentro, ma l'amarezza me la lasciano.
Purtroppo si può togliere solo con un po' di dolcezza: ma non è quella di un chicco, di una zolletta di zucchero, di una ciambella, di una torta. Quella dolcezza che tutti vogliono tenersi per sè, perchè gli altri potrebbero rovinarla, e pochi si fidano davvero a lasciarla in mano a qualcun'altro, che per egoismo forse, prende e trasforma in amarezza prima o poi, restituendola nella nuova forma al mittente. Forse lo fa invece per incapacità, ma il risultato non cambia.
Ma io quella dolcezza non l'ho mai ricevuta. Però l'amarezza sì, quella sì, da fuori, da chi non voleva tenersela perchè in fondo è solo una patata bollente che ci si porta dentro, e si pensa che liberandocene cambi qualcosa, ma le ustioni rimangono comunque, e sono quello il vero problema.
Dicono che sotto la neve tutti siamo uguali: non è vero. Sembriamo. Ma non lo siamo. Rimane il tarlo, che tutto rode, il tarlo dell'amarezza che tutto consuma, e solo dopo anni ti accorgi che anche la neve dei tetti di legno può crollare. A che punto sono? La neve non me lo fa vedere.
Il tarlo ha già fatto molto comunque. Sta solo sperando per far crollare tutto che la primavera non arrivi prima che lui abbia finito, altrimenti lo vedranno con il disgelo. Se arrivasse la dolce primavera, per lui sarebbe finita. Dovrebbe passare molto tempo, prima che possa ricominciare indisturbato. Sa che lo farà, ma non sa quando nevicherà.
...
Alla fine, comunque, rimane sempre.